mercoledì 5 maggio 2010

Villa Bagatti quale futuro?

VaredoFutura ha nella propria "natura" la Villa Bagatti, vero simbolo del nostro Comune. Fa così parte della nostra natura che il suo skyline è all'interno del logo dell'Associazione insieme al prestigioso viale, logo pensato e realizzato molto prima che si presentasse l'opportunità all'Amministrazione comunale di acquistarla.
La villa e il suo viale sono un'indubbia risorsa per la nostra comunità, una risorsa che va coltivata e pensata come però mai è stato fatto fin'ora. Già qualche anno fa c'è stata la possibilità che il patrimonio della villa rientrasse interamente tra i beni comunali. Quella storia la conosciamo tutti, conosciamo come andò a finire ed è sotto agli occhi di tutti cosa ha significato quell'occasione persa.
Oggi l'occasione si ripresenta, all'interno dell'Amministrazione c'è un ampio consenso perché avvenga l'acquisizione, consenso per altro trasversale agli schieramenti. Ciò che stupisce sono i discorsi di contorno all'operazione; un'operazione che sembra prettamente una questione finanziaria e non una questione "culturale".
Tutte ciò che viene detto e scritto ha valenza solo economica: costa troppo o l'acquisto è ragionevole?
Le domande dovrebbero essere altre: acquistare la villa Bagatti per fare cosa? Perché diventi il motore dell'essere Varedesi o per impreziosire le proprietà del Comune con un Gioiello in più?
Sarebbe utile che la villa fosse ben più di un viale occasione solo per lunghe passeggiate e un parco utile per ritemprasi durante il caldo estate. Sarebbe utile immaginare un grande progetto che coinvolga tutti, pensando non solo le modalità migliori per acquisirla, ma anche come gestirla, come farla vivere, come consegnarla al nostro futuro non solo come investimento ma come centro della condivisione e della crescita culturale di Varedo.
Quella villa rappresenta molto della storia della nostra cittadina. Gioiello per un periodo non molto lontano quando Varedo rappresentava qualcosa anche per il territorio circostante. Oblio. Tentativo di rinascita quando si parlò del piano aree Ex-snia che la coinvolgeva. Declino negli ultimi anni quando varedo si è fermata in attesa di trovare una sua nuova identità con il rilancio delle aree Ex-snia.
Abbiamo il dovere di pensare a un progetto per il complesso Bagatti che abbia la stessa lungimiranza che sta nel piano di trasformazione dell'area Snia. Abbiamo il dovere di non consegnare quella villa solo a spazio per ricevimenti e banchetti matrimoniali, come purtroppo accade per troppe ville storiche della Brianza. Abbiamo il dovere di sentirci tutti coinvolti in questo processo. Perché il nostro futuro culturale sta dentro anche quel muro di cinta rimasto per troppi anni invalicabile.

sabato 24 aprile 2010

E adesso.

E adesso che sta passando il 25 aprile e anche stavolta è stato detto ciò che per decenni è stato detto e fatto ciò che per decenni è stato fatto, sarebbe bello parlare della resistenza in un altro modo, fuori dalla retorica, un po’ più semplici, lontani da celebrazioni in cui i protagonisti sono sempre più in disparte, in balia di vecchi riti che sulle rive di un fiume tentano di raccontare ciò che scorre fra le sponde come fosse immutabile, senza accorgersi che fra le onde niente si ripete.
Purtroppo alla resistenza non abbiamo neanche dato la possibilità di essere storia. L’abbiamo trasformata in tifo, lo stesso verso del vincere o del perdere come valore a prescindere, che un po’ più in basso sta distruggendo il calcio.
Eppure il passato, i fatti, è giusto appartengano alla storia, una complessità in cui tutto non è bianco come tutto non è nero. Lasciamola alla storia la disputa sulle azioni, sicuri che la resistenza, quella vera, non ci perderà, anzi...
Ciò che sarebbe giusto rendere vivo è ciò che è immutabile. I sentimenti dell’uomo, comprensibili anche a quelli che quando sentono parlare di partigiani li collocano nello stesso tempo noioso dei Giulio Cesare o Cristoforo Colombo. Insomma, se smettessimo di presentare il 25 aprile come un colore ma lo eleggessimo a valore eterno, allora sì che sarebbe vivo.
Il derby fra “La canzone del Piave” e “Bella Ciao” è stato il must del 2010. Beh, se cercassimo la “sostanza” e almeno per una volta guardassimo i contenuti e non i contenitori, non staremmo a far gazzarre e, a quella che potrebbe essere una provocazione, risponderemmo sì, ok, suoniamolo pure “Il piave mormorava”, ma raccontiamola giusta quella guerra.
Perché se stiamo al sentimento del resistere, ci accorgeremmo che i 650.000 contadini, operai, studenti massacrati contro i fili spinati della grande guerra sono stati i primi partigiani, se con “partigiani” indichiamo coloro che, al di là della paura, del rischio, della convenienza e della difesa della propria vita fanno quello che ritengono giusto e si sacrificano per questo.
Consiglio, a chi volesse andare al di là dei “processi del lunedì” della politica, di leggersi Emilio Lussu, che con la brigata Sassari era sul Piave, poi fu antifascista, fra i fondatori di Giustizia e Libertà, fece la resistenza e fu uno dei “padri” della nostra Costituzione.
Leggere “Un anno sull’Altipiano”, o “Marcia su roma e dintorni", che giuro sono leggeri e divertenti molto più di un libro di Cassano, è farsi un bel percorso nella verità e nella giustizia.
Come magari riscoprire la “leggerezza” de "Il partigiano Johnny" di Fenoglio (questo è un po’ più tosto), che resiste semplicemente perché è naturale farlo, non per una idea perfetta, o i piccoli maestri di Meneghello (un veneto, già) per tornare sull’Altipiano di Lussu quarant’anni dopo, a respirare, in un certo senso, la stessa disponibilità al sacrificio che aleggia da sempre là sopra.
Leggiamolo ‘sto percorso in un’Italia vera, conosciamo i Santini che escono dalla trincea a morire per un ordine assurdo, gli Ottolenghi che volevano sparare ai generali piuttosto che agli austriaci, gli Avellini che credevano alla patria come quarant’anni dopo si crederà alla giustizia.
Scopriamo l’Italia che si sacrificava nella stessa misura di quarant’anni dopo, quando seppe dire di no perché era giusto dirlo, e che aveva capito che rischiare la vita per ciò che si ritiene giusto è molto più che sopravvivere ad ogni costo.
Loro magari volevano provocarci con il Piave? Beh, impariamo a scattargli in faccia, come si dice nel ciclismo o a vincere alzando la posta, come si dice nel poker... Se c’è una cosa di cui possiamo andare orgogliosi, al di là del luogo comune che ci descrive, è che gli italiani prima di fare quello che altri indicano come dovere, ogni volta hanno il sentimento di chiedersi se è giusto.
Se comprendiamo questo della nostra storia, non staremmo a fare gazzarre e ancora peggio, retorica come se fossero il “senso”, ma spereremmo che il sangue degli italiani “passati”, dentro di noi, da qualche parte fra le parole, le parole, le parole e il nulla, ancora ci sia.

domenica 20 dicembre 2009

Studia studia somarello

Era la preistoria. Si tornava a casa all'una, qualche compito, poi a giocare. Eravamo una generazione d'ignoranti, probabilmente, figli di una scuola ignorante. Però mi guardo attorno, e non mi sembra che quelli venuti dopo siano la Sorbona.
Si finiva all'una, un po' di compiti, e a perdere tempo, si direbbe oggi.
Perdere tempo era la partita a pallone, il campetto, socializzare. Era la parola, la chiacchiera, l'avventura, magari anche il libro da leggere, visto che la tv cominciava alle 17, ma anche ci fosse stata, chi se ne frega...

Oggi, dalle medie, si finisce alle 16. Giusto il tempo di una merenda, Poi, i compiti. Se va bene, si finisce alle 21.
Socializzare? Boh, forse, chi riesce a fregarsene dei compiti, senza nulla, si gira, e per noia in fretta si diventa grandi, si fa tutto, poi viene il nulla, forse, ma un nulla sapiente (forse).
Se poi qualcuno vorrebbe dedicarsi ad uno sport, compresso fra un compito e l'altro, il tempo libero che diventa sacrificio dello studio, mai viceversa.

Chiedo, davvero è necessario che a 12 anni si sappia tutto della filologia, della filosofia, della sociologia, dell'economia. Davvero è necessario sapere tutto a 12 anni? Sicuri che sapere tutto alla fine non sia esattamente identico al non sapere niente?
A cosa servono i nomi, le date, se non si riesce a disegnare i processi per cui quei nomi hanno contato, le epoche (cioè il modo di sentire la vita) per cui sono state crocevia?
Manca la fantasia, oggi, la capacità di costruire storie, sono spariti i temi, che è misurarsi non con quel che si sa, ma con quel che si crea, il dono umano di immaginare schemi, la capacità di leggere non quello che è, ma quello che non è.
L’idea della disciplina per un dodicenne è assolutamente identica all’idea dell’anarchia. Un dodicenne deve imparare a scegliere, non a stare.
Non esaltiamoci se i nostri figli studiano, un po’ agitiamoci, anzi perché in quel momento, proprio in quel momento non stanno pensando, non stanno immaginando, stanno solo immagazzinando qualcosa che è troppo pesante per portarsi dentro più di qualche giorno.

Ma forse sbaglio, sono solo i dubbi di uno cresciuto in una generazione di ignoranti, figlio di una scuola ignorante. Probabilmente è così, ignoranti, perché attraverso i nostri tempi si è passati a questi, e per forza un po’ responsabili lo siamo, no?
Lo siamo colpevoli, perché non sappiamo distinguere chi parla di disciplina e poi ha scelto di fare gli esami a Reggio Calabria, un medico chirurgo che chissà perché deve fare il ministro dell’istruzione e una che passa da ministra a sindaca con lo stesso encefalogramma emozionale.
Lo siamo colpevoli perché non riusciamo a chiedere la scuola che meriterebbero i nostri figli e le nostre tasse.
La scuola che insegni loro cosa siamo stati veramente, non i giuli cesari o i vittori emanueli...

Non è questione di politica, perché dovunque ti volti, di qua e di là, c'è solo il silenzio delle cose e l'urlo della retorica, di qua o di là nessuno ha la voglia e il coraggio di affrontare il problema vero della scuola, tutti che fanno, nessuno che pensa, nessuna strategia e tanti falli da confusione, e poi tutti a coprire una delle ombre vere, cioè che tra molti professori che fanno e danno amore, passione e professione, ci sono certi insegnanti che… mamma mia!
Ma che fai, li mandi a casa? E i sindacati? E Brunetta maestro dell'abbaiare per non cambiare niente?
Teniamoli va, male che vada faranno male a qualche alunno, fra tanti qualcuno di loro si salverà, se no i genitori a che servono?

giovedì 15 ottobre 2009

Ambiente, giovani, cultura: tre parole per Varedo

Quelli che verranno saranno tempi in cui ci giocheremo tutto, ma anche anni in cui tutto avrà opportunità di rinascere nuovo. Il compito di Varedofutura, e il vostro se vorrete esserci, sarà lasciare appunti di un domani possibile, scarabocchi di futuro nella consapevolezza che gli altri potranno correggerli, approfondirli, confutarli.

E’ inutile raccontarsela, questa crisi c’è, e la senti. Da una parte la tragedia dei singoli, dall’altra l’orchestrina da ultima notte sul Titanic, mezzi di informazione che raccontano solo di gente contenta e superenalotto, come se tutti, fortunati e sfortunati, non respirassimo un unico mondo.

Un mondo diviso, non sarà mai un mondo giusto. Come una città divisa non sarà mai una città al massimo delle sue possibilità. Per definizione, genesi ed essenza la città non è parte ma insieme che sceglie un cammino comune.

Sembrano giorni giusti perchè Varedofutura provi ad esistere anche perché una larga parte politica di questa comunità ha saputo andare oltre ogni preconcetto per considerare un’ispirazione come il nuovo PGT indicandolo come orizzonte ideale per Varedo. Riconoscere la direzione opportuna, indipendentemente dalla parte che l’ha concepita, è segno di intelligenza, capire che il mondo è fatto di cose giuste o sbagliate, non di definizioni ideologiche. Non esisterà mai una città perfetta, esattamente come non esisterà mai una società o una persona perfetta. Leggere una provenienza e darle una giusta direzione, questo è il compito degli uomini.

A Varedo ci sono tante idee da trovare. Luoghi da costruire. Nuovi panorami da disegnare. Parole da scrivere. Ne suggeriamo tre: ambiente, giovani, cultura.

Il paesaggio di una città pulita, non solo nei marciapiedi ma anche più su, nel modo di muoversi, di vivere. Una nuova ecologia, cioè un abitare, un comprare, un consumare, uno spostarsi che voglia dire salute. Servono idee…

A Varedo ci sono paesaggi da cambiare..

Nei giorni, nelle sere, nelle notti, abbiamo giovani depositati qua e là, appoggiati alle vie e alla noia. Per essi non esiste un riferimento culturale o sociale, nessun impegno che non sia l’oratorio, che non sarà mai la strada scelta da tutti. Ci lamentiamo, sospiriamo ma poi ogni famiglia è sola di fronte al disagio e alle difficoltà.

Esistono realtà che sugli adolescenti lavorano e costruiscono comunicazione e integrazione culturale Approfondiamo il rapporto con esse.. Se no, spegniamo le luci, tanto di sera in certe vie di Varedo la gente non esce. Risparmieremo sulle tasse e, finalmente, avremo alibi per non vedere .

E poi a Varedo ci sono i paesaggi da rappresentare.

Due gruppi teatrali, due scuole di ballo, sforzi creativi come il Palio, distretti scolastici che hanno volontà di creare eventi, possibile non ci si possa porre la nascita di un auditorium comunale? Non il Teatro alla Scala, uno spazio semplice ma funzionale, in cui Varedo possa creare, provare, pensare, organizzare, darsi dibattiti e idee, raccontare storie e la storia, non quella delle fanfare, la nostra.

Nel PGT si è intuita un’idea di città armoniosa. Si è dipinta una virgola di verde attorno alle case, attorno a noi. Dentro quel punto grigio di umanità ci deve essere uno spazio di pensiero e identità. Si deve provare a rappresentare la consapevolezza e l’orgoglio dei posti da dove veniamo e di ciò che siamo, e da essi far nascere il futuro, l’orizzonte delle culture, ingrediente indispensabile nella crescita di una comunità che voltandosi indietro, ritrovando sé stessa, può riscoprire il coraggio e l’orgoglio per il dialogo, la comprensione, l’integrazione, unica antitesi alle miserie di paure del tutto strumentali.

Come diceva Shaw: c'è chi guarda alle cose come sono e si chiede perché. Altri che sognano come potrebbero essere e dicono: perché no?

Insomma. O nuovi orizzonti. O l’inerzia mortale delle chiacchiere dei tanti eserciti delle 12 cadreghe cantati da Davide Van de Sfroos

Questo è il bivio, comunque volessimo chiamare il nostro futuro: Varedo. Brianza. Italia.

O Varedofutura…